24 marzo 2013

Settimana bianca a Roma




Molti si saranno chiesti, oppure se lo staranno chiedendo in questo momento, se sia mai possibile trascorrere una settimana bianca nella città eterna. Eppure per qualcuno, forse, fu possibile. L'occasione propizia per poter, magari, coronare il sogno di una vita, non fu la nevicata del '56, come qualcun altro giustamente potrebbe pensare, bensì l'occasione, come dicevo, propizia per quel qualcuno si presentò allor quando a Roma si tenne una manifestazione nazionale per il lavoro. Era la metà degli anni '80. Anni nei quali questo tipo di manifestazioni erano di moda. Eravamo nel pieno degli anni di fango. A quei tempi non c'erano, come adesso, distinzioni tra centrodestra e centrosinistra. La magna magna al governo era generale. Erano gli anni dei governi del pentapartito. All' opposizione c'era invece la vera sinistra di un tempo, che era quasi tutta concentrata nel grande partito comunista del compianto Enrico Berlinguer. Partito che veniva da un 30% di voti ottenuto alle elezioni europee. La manifestazione per il lavoro era organizzata dalla confederazione sindacale C.G.I.L. , C.I.S.L. , U.I.L. . Per il nostro paese era organizzata dai soliti noti, Francu Tete, Alfredo, Ntone lu cecatu ed altri, magari meno noti di questi. Da notare che, naturalmente, il viaggio verso la capitale era gratuito, o meglio il tutto era a spese della confederazione sindacale. Nessuno, anche qui naturalmente, aveva nulla da ridire su queste spese. Cosa che invece fu rinfacciata al Berlusca quando lo stesso organizzò a spese del suo partito e dei partiti alleati una manifestazione nazionale contro il governo. Avete mai visto voi una manifestazione a spese dei manifestanti e non a spese di organizzazioni sindacali o di qual si voglia altra associazione? Vedremo più avanti come andò quel viaggio, gratuito, verso la capitale. Comunque, era quella manifestazione che offriva anche a noi la possibilità, oltre che a quel qualcuno di trascorrere la sua settimana bianca, di andarcene a Roma per un giorno, un sabato, gratuitamente. Naturalmente non per manifestare, ma per passare un sabato diverso. Un sabato nuovo. Per di più a gratis. Sapemmo della manifestazione, e quindi del viaggio, solamente il giorno prima. Quindi non ci fu molto tempo, a nostra, ed altrui, disposizione, per poter decidere tranquillamente sul da farsi. C'era un pullman da riempire. E che pullman. Il nostro gruppo nel gruppo si compose da subito da me, Bruno G. e Nazzareno P, assidui frequentatori della sezione paesana del P.C.I. . A noi si aggiunsero Pasquale M. e Nicola M.. Però volevamo infoltire ancor di più quel gruppo nel gruppo, che da lì a poco sarebbe andato ad unirsi a un gruppo immenso, gruppo di circa un milione di manifestanti, nonostante la questura. Anche se questo come ho già detto non era nelle nostre intenzioni. Passammo il pomeriggio a cercare, in piazza, qualche altro "compagno" da unire alla piccola comitiva. E qualche altro passeggero di quel pullman sgangherato. Nessuno era disposto a venire. Mancavano poche ore alla partenza. E c'era anche la scuola il giorno dopo. Niente da fare. Nessuno si voleva unire a quel piccolo gruppo di manifestanti. Fu così finché, davanti al tabacchino, non passò "Colaccinu". Al secolo Nicola F.. Il quale era sempre indaffarato con i suoi lavori. E non era uno che frequentava la piazza. Quel giorno a quell'ora passò con la sua vespo. Ed il destino volle che si imbattesse in noi, che non avevamo il suo da fare. Colaccinu era uno che nella gioventù ne aveva combinate delle sue. Dal bersi la candeggina pensando fosse acqua, all'ustionarsi il volto con della benzina. Si racconta che quel fatto successe perché accese l'accendino in prossimità del serbatoio della sua vespa, per vedere quanta miscela ci fosse dentro. Forse questa era solo una leggenda. Non era leggenda, invece, il fatto che avesse la faccia tutta nera per via di quell'ustione. All'arrivo di Colaccinu, così come per ogni altro passante in quel venerdì pomeriggio, la domanda fu: "A Nicola ti nda vene a Roma?". Dopo un po' di spiegazioni su come ci si doveva arrivare e su quello che dovevamo, almeno sulla carta, andare a farci, Nicola esclamò: "Quasi quasi mi nda vegno. E si vegno mi spagnu ca mi la fazzu la settimana bianca" (Quasi,Quasi vengo anche io. E se vengo ho paura che mi faccio la settimana bianca). Datemi un po' di tempo che mi organizzo e poi vi saprò dire con precisione, disse. Si partiva, da sutta a "Ndon Titta", alla mezzanotte, per arrivare a Roma in mattinata. Lì, Colaccinu si presentò con sulle spalle un grandissimo scatolone che sembrava un baule. In quel momento cominciavamo a credere veramente alle sue parole. E cioè che si sarebbe fatto, davvero, una settimana a Roma. Evidentemente, visto che doveva essere una settimana bianca, dentro aveva scarponi e salopette, piuttosto che gli sci. Ci sarebbero potuti entrare, da quanto era grande quel bagaglio. Bagaglio legato con lo spago, come nelle migliori tradizioni. A Colaccinu mancava solo il colbacco. Ma poi avrebbe imitato troppo Totò e Peppino de "La malafemmina" e lui era un tipo originalissimo. Da notare che quella settimana che doveva essere, nelle sue intenzioni, bianca, era una settimana di fine maggio. Comunque partimmo alla volta di Roma. Il viaggio fu uno strazio. In autostrada venivamo puntualmente sorpassati da pullman gran lusso, con tanto di aria forzata, a quei tempi andava di moda questo termine, che avevano la stessa nostra meta. Mentre noi, al massimo, nonostante fosse quasi estate, potevamo permetterci una stufa. Stufa che, quelli che sedevamo nella parte posteriore del pullman, avevamo sotto i piedi. La stufa era il motore di quel vecchio trabiccolo. E ogni tot di chilometri bisognava fermarsi, in qualche piazzola piuttosto che in qualche autogrill, per fare in modo che la stufa si raffreddasse un po'. Nella parte posteriore del pullman solitamente si sedevano i casinisti. Ed in quella parte posteriore erano seduti anche i componenti di un altro gruppo nel gruppo, anche loro casinisti, che era composto, fra gli altri, da Claudio Bajuni, Vitu Bettega e Vitu de Maria Gnau. Loro ebbero la splendida idea, per loro ma anche per tutti gli altri, di portare un sacco, quelli di carta della farina, pieno di rosette. Il sacco pieno se lo erano procurato poco prima, a loro spese e non della confederazione sindacale, naturalmente, al panificio, che a quei tempi funzionava "alla papa" e dove ci lavorava anche il "nostro" Pittis. Fu quella la trovata, insieme a "chilati" di affettati vari, che allietò il viaggio verso la capitale. Capitale in cui arrivammo la mattina seguente, verso le otto e trenta. Qui iniziarono le prime schermaglie, attraverso i finestrini, con i passanti, per le vie di Roma. Neanche fosse stata una trasferta calcistica. Scendemmo dal pullman davanti alla stazione Termini. E lì ci venne indicata la piazza dove ci saremmo dovuti ritrovare, verso le quattordici e trenta, per il ritorno a casa. Ritorno a casa, che visto il pullman e visto che nessuno di noi conosceva Roma, non era poi così tanto scontato. Il gruppo nel gruppo degli organizzatori paesani si incamminò verso il posto dal quale prendeva inizio il corteo dei manifestanti. Il gruppo nel gruppo degli altri casinisti non vidi per dove si diresse. Il nostro gruppo nel gruppo aveva appuntamento, davanti alla stazione Termini, con la sorella di Nicola M. che in quel periodo studiava a Roma all' università. Colaccinu, che faceva gruppo a sé, lo vidi indirizzarsi per non so bene dove, in mezzo a tutto quel traffico, con sulle spalle quel suo bagaglio, che per come lo portava doveva essere bello pesante. Il contenuto, oltre che pesante, doveva essere molto importante. Sparì nel nulla. Anzi nel "molto" della Roma che ci trovavamo davanti. Luci, colori, semafori, cartelloni pubblicitari, suoni, grida, clacson, sirene, macchine, pullman, taxi, barboni, lavavetri, accattoni, poliziotti e naturalmente manifestanti. Nel frattempo arrivò la sorella di Nicola insieme al suo ragazzo. La quale, per la paura di quello che avremmo potuto combinare o che ci fosse potuto accadere per le vie di Roma, ci disse che a Roma, visto che ci sarebbe stata la manifestazione, quel giorno, sarebbe rimasto tutto fermo. Dai pullman alla metropolitana ad ogni sorta di mezzo pubblico di trasporto. E ci esortava a prendere parte alla manifestazione insieme al gruppo organizzatore paesano. Naturalmente noi dubitavamo delle sue parole, ma la invitammo ad andar via tranquilla in quanto saremmo andati alla manifestazione. Da lì allo scendere sotto la metropolitana la strada fu breve. Penso che ci facemmo tutte le fermate che era possibile fare, tra le due linee della metropolitana, per quel che riguardava il centro di Roma, in quel lasso di tempo, che avevamo a nostra disposizione. Ove era possibile scavalcavamo i tornelli, che oggi sono diventati famosi per gli stadi sicuri, per non pagare il biglietto. Nella metropolitana così come per le vie della Roma antica ne vedemmo di tutti i colori. Ma per quanto giovani eravamo sicuri. Tranquilli, non tanto. Come quando in metropolitana Nicola M. fece capire a tutti noi, e ad alcuni brutti ceffi, quanto fosse sicuro di se. Tenendo il portafoglio stretto in mano attraverso la tasca dei pantaloni disse: "lu partafogghio no cazzu mi lu futtenu" (Il portafogli non me lo fregano). La mattinata ci volò via. Arrivarono presto le tredici e trenta e c'era da trovare la piazza, Ragusa, penso di ricordare bene, dove avremmo dovuto ritrovarci e dove avremmo dovuto essere per le quattordici e trenta. A quell'ora in quella piazza ci ritrovammo tutti, quelli che eravamo partiti. Tranne uno. Colaccinu. Lui mancava all'appello. Era proprio vera l'intenzione di farsi la settimana bianca. Lo vedemmo dopo un po' di tempo in piazza davanti al solito tabacchino dove ci disse che era rimasto a casa del fratello. Che in quegli anni viveva a Roma. In ogni caso rimane ancora oggi il mistero di cosa, quel giorno, portò a Roma in quel grandissimo scatolone, tanto da somigliare ad un baule, legato con lo spago. Se davvero dentro ci fosse tutta l'attrezzatura per la settimana bianca, oppure ogni ben di dio, tra suppressati, satizzi, pane, vinu,ojjo, olivi scacciati, zziriminguli, pruppuna, frittuli, ndujra, boccolari, pumadora calijati, ascadi, castagni, nuci, nucijri, e li pasticcini sicchi, fatti da Scaturchio, che non possono mai mancare. Si, in quel grandissimo scatolone poteva starci tranquillamente, anche, tutto questo. Se Colaccinu trascorse la sua tanto sospirata settimana bianca in quel di Roma e coronò, in quel modo, il suo sogno, rimane a tutt'oggi, insieme al contenuto del suo "pacco", un mistero.

La barca di San Pietro





C'è un usanza nell'Italia settentrionale che si tramanda da moltissimi anni, di generazione in generazione. Che comunque sta andando via via perdendosi. Questa antica usanza vuole che nella notte tra il 28 ed il 29 giugno, la notte antecedente il giorno in cui si festeggiano i santi Pietro e Paolo, in una caraffa, o qualsiasi altro recipiente in vetro, piena di acqua pura, venga versata la chiara di un uovo, fresco. La caraffa poi viene lasciata l'intera notte, sotto le stelle, possibilmente in un prato, così da poter prendere, meglio, la rugiada. Al mattino seguente la chiara d' uovo avrà assunto la forma di un veliero. E questo veliero viene chiamato "La barca di San Pietro". Per ricordare che San Pietro è stato un umile pescatore. In alcuni casi il veliero è così ben definito da osservarne l' albero, le vele e appunto San Pietro. Il fatto curioso è che in nessun altro giorno dell'anno questo fenomeno si ripete. Ed il perché ciò avvenga, solamente in quel giorno, non e' chiarito dalla scienza. Gli esperti dicono che si tratta di fenomeni di "cosmopatia" e di fenomeni "fluttuanti nel tempo". Spiegando che, una reazione chimica tra più sostanze, di cui una organica, avviene giorno dopo giorno in condizioni diverse, le stesse condizioni si ripetono solamente nello stesso giorno dell'anno successivo. Comunque non saprei dirvi come sia nata questa usanza e per quale, strano, motivo venne fatta la prima volta. Comunque da questa, un tempo, si cercava anche di trarne dei benefici sui raccolti. Ed il veliero ben definito era, anche, presagio di un buon futuro. Altri volevano che, nel caso che la barca avesse avuto delle larghe vele, fosse in arrivo la pioggia. Se invece fosse stato visibile San Pietro in barca, il tempo sarebbe stato asciutto. Riguardo all' argomento c'è anche un vecchio detto popolare che dice: "Se piove a San Paolo e Piero piove par on ano intìero". "Se piove il giorno di San Paolo e Pietro piove per un anno intero". Insieme a queste leggende ce ne sono molte altre. Come quella che vuole che, se un fiore viene reciso la notte di San Giovanni (23/24 giugno) e viene appeso, rimarrà intatto per molti giorni e seccherà,soltanto, dopo molto tempo. Altre leggende vogliono che, se si mangia un uovo, fresco di giornata, il venerdì santo, non si verrà punti dagli insetti. Così come, se lo stesso giorno verranno potate le viti, le uve di quelle viti non verranno mangiate dagli insetti. E se nel giorno dell' ascensione si mangia un cotechino ripieno di lingua, si potrà andare tranquillamente per i boschi, in quanto non si rischierà di venir morsi dalle vipere. 

Heysel, 29.05.1985




Sono passati molti anni da quella serata maledetta. Anche se troppo pochi per poter dimenticare. Troppo giovane per capire quello che stava succedendo. Anche se il perché, di tutto quello che e' successo, nessuno potrà mai capirlo. Troppa attesa per poter festeggiare, festeggiare una coppa campioni, la prima. Coppa pagata a caro prezzo, senza colpe. Prezzo pagato con la vita, da 39 tifosi. Tifosi di ogni età, di ogni parte d'Italia e anche dall'estero. Prezzo pagato con l'esistenza stravolta, dai familiari delle vittime. Oggi a tutto questo tempo di distanza mi chiedo se e' possibile perdere la vita in quel modo e soprattutto se e' ammissibile togliere la vita a qualcuno per una partita di calcio. E chissà se, invece di 39 persone morte, quella sera, ne fossero nate altrettante a quest' ora avrebbero raggiunto quella maturità che dovrebbe portare qualsiasi persona a capire che non e' accettabile morire in quel modo per qualsiasi altra cosa al mondo. Voglio ricordare quella serata e soprattutto le vittime, con il racconto di chi, quella sera, era presente, e l'ha vissuta in prima persona. Il racconto e' tratto da www.juventus1897.it e che pubblico grazie al permesso dell'autore (chub062@hotmail.com).


" E’ quasi mezzogiorno quando arriviamo a Bruxelles. Il viaggio è stato interminabile, soprattutto per me che non riesco a dormire in pullmann. Lungo il percorso ogni tanto abbiamo superato altre carovane di tifosi juventini, con i quali ci siamo salutati chiassosamente, ma avvicinandoci alla città il numero di pullmann bianconeri è aumentato in maniera esponenziale: siamo una marea e questo, anche se si tratta solo di una illusione, ci fa ben sperare per l’esito della partita.Il parcheggio che ci hanno riservato è grandissimo ed è stracolmo di tifosi. Cerco qualche faccia conosciuta, ma so che è inutile. Solo io, Gino e Fabio siamo arrivati qui per strada; gli altri tifosi della mia cittadina stanno arrivando in aereo, beati loro che possono. Cerchiamo le indicazioni per lo stadio. Non ce ne sono oppure non le vediamo, seguiamo la corrente bianconera, qualcuno là davanti saprà dov’è. Una breve pausa per una foto davanti all’Atomium: l’ho visto mille volte sui libri di geografia e vederlo dal vero mi fa un certo effetto. Finalmente arriviamo nei pressi dello stadio: esternamente non ci sembra granché, spero che sia meglio all’interno. Sui prati attorno allo stadio ci sono tantissimi gruppetti di tifosi: c’è chi mangia, chi dorme, chi legge la Gazzetta e avvicinandoci sentiamo i discorsi concitati di mille allenatori; ognuno ha la sua formazione e la sua tattica di gara, ci accomuna solo la speranza che non si ripeta la beffa di Atene.Io, apprensivo come al solito, voglio individuare l’ingresso del nostro settore per non essere impreparato quando apriranno i cancelli; Gino e Fabio mi prendono in giro ma si uniscono a me nella ricerca. Ci avviciniamo al perimetro dello stadio e cominciamo a percorrerlo. Nei pressi di quella che dovrebbe essere la tribuna centrale ci sono delle transenne. Qui non si passa. Facciamo un giro più ampio e arriviamo in corrispondenza di una delle curve. Sarà la nostra? Assorti nella ricerca, non ci siamo accorti che il colore dei prati circostanti è gradualmente mutato: da verde, bianco e nero è diventato verde e rosso. Qui ci sono i tifosi del Liverpool. Nella illusoria speranza che la mia maglia bianconera e quella di Fabio non risultino così evidenti (come se quella blu da trasferta di Gino con il logo Ariston, lo scudetto e le stelle sembrasse una normale polo…) proseguiamo nel nostro cammino. Non posso fare a meno di sbirciare i volti dei tifosi inglesi, nel timore di una espressione di minaccia e nella speranza di un sorriso di complicità.Un ragazzo si stacca da un gruppetto numeroso e si avvicina. Sorride timoroso, indica la mia maglia e mi parla. Accidenti, come è diversa la sua parlata dall’inglese della prof.; comprendo la metà delle sue parole, ma capisco che vuole cambiare la mia maglia con la sua. Perché no? Magari ci speravo in una cosa del genere e forse sarà per questo che, oltre alla maglia ufficiale, mi sono portato una maglia replica acquistata su una bancarella davanti al Comunale prima della partita con il Bordeaux. Facciamo lo scambio. E’ bella la loro maglia, di un rosso che comunica passione; chissà quand’è che la Juve deciderà di adottare le maglie fatte con questo tessuto lucido. Ci diamo la mano e ci salutiamo. Io gli dico: “Good luck”, ma non lo penso veramente, non per stasera almeno. Proseguiamo nella nostra ricerca, arriviamo quasi alla fine della curva prima del settore dei distinti; qui c’è un po’ di movimento. Non capiamo o forse capiamo ma non ci sembra possibile. Ci sono dei tifosi a cavalcioni del muro di cinta che in questo punto mi sembra più basso che altrove e con il filo spinato rotto; altri tifosi stanno passando loro dei contenitori, sembrano casse di birra. Forse stanno portando dentro degli striscioni, ma qualcosa ci dice che la prima impressione è quella giusta. Questi sembrano meno amichevoli di quelli che abbiamo incontrato prima e allora decidiamo di non indugiare troppo e ci affrettiamo ad allontanarci. Passato il settore dei distinti, l’ambiente torna a tingersi del rassicurante colore bianconero e vediamo anche un cancello con sopra un cartello che recita “Juventus”; non ci è dato di sapere se è l’ingresso del nostro settore, ma una valutazione della piantina dello stadio disegnata dietro al biglietto di ingresso ci spinge a pensare che sia così. Chiedo a tutti quelli che incontro se è questo il settore ‘N’ e puntuale arriva la presa in giro di Gino e Fabio. Siamo arrivati e anche se è un po’ presto, decidiamo di fermarci qui. Anni di partite al Comunale ci hanno insegnato che se non sei davanti ai cancelli quando aprono, ti rimangono i posti peggiori.Il pomeriggio avanza, fa caldo (perché quando compri la maglia ufficiale ti mandano sempre quella a maniche lunghe invernale?), il numero di tifosi aumenta e tutti si accalcano. Già da tempo abbiamo rinunciato a stare seduti e, per giunta, nel gruppo si è infilato anche un poliziotto a cavallo ed io, con la mia solita fortuna, sono faccia a faccia con il quadrupede. Spero che sia stato addestrato bene. Sorrido al poliziotto, nella speranza che capisca che qui non ci sono teppisti, ma lui non si smuove. “Vabbè, l’importante è che tu tenga buono Furia” penso io. Cresce l’eccitazione. La batteria dell’orologio mi ha abbandonato, ma penso che ormai ci siamo. Ora aprono. E’ come una scossa. Cominciano i cori “Juve, Juve” prima ancora di entrare. Siamo dentro. Ci sistemiamo in una posizione decente, vicino ai distinti e cominciamo a studiare quello che sarà il teatro della partita. Il prato è uno splendore. Qui il verde sembra – se possibile – più verde, che meraviglia. Però il resto non è granché: lo stadio non ci sembra molto grande; sicuramente è molto vecchio e comunque tenuto male. Addirittura i gradini larghi e bassi sono in più parti sbriciolati. Penso che sia quasi meglio il Comunale, che ho tante volte denigrato. Ricomincio a fare il solito giochetto delle “forze” sugli spalti, come se il numero dei tifosi fosse decisivo. Guardo verso al curva opposta alla nostra, dove ci sono i nostri “nemici”, ma non è tutta rossa: nella parte verso le tribune ci sono degli juventini. Chissà, forse siamo talmente in tanti che ci hanno riservato anche quel settore. Intanto lo stadio si riempie. Per ingannare l’attesa si parla, si legge un quotidiano faticosamente mendicato al vicino; ogni tanto qualcuno parte con un coro e allora tiriamo su sciarpe e bandiere e cantiamo per darci coraggio e sperando di darne ai giocatori. C’è uno dietro di me che ha uno striscione con scritto “Mamma sono qui”. Questa mi mancava.L’eccitazione aumenta sempre più. Non riesco più a calmarmi, se continuo di questo passo esaurirò le unghie prima dell’inizio della partita. Un boato. Sono entrate delle persone con la tuta della Juve sul campo. Da qui non riconosco i volti, potrebbe essere il massaggiatore, ma potrebbe essere anche Platini. Quanto manca? Sono quasi le sette. Manca ancora parecchio ed i minuti sembrano espandersi nell’attesa. Mi metto tranquillo. Ma dura poco.Un brivido percorre la curva, forse stanno entrando i giocatori a vedere il terreno di gioco. No, sta succedendo qualcosa sulla curva opposta. Cerco di capire. Dai due settori riservati ai tifosi del Liverpool stanno lanciando degli oggetti verso il settore degli juventini, sembrano bottiglie, forse sassi, non vedo bene. La parte della curva bianconera fischia, anche noi fischiamo. Ma proprio stasera dovevano fare casino? Fra le due tifoserie compatte si è aperta una frattura. Poi, come comandati da un unico impulso, i tifosi del Liverpool cominciano a muoversi in direzione di quelli della Juve. “Ci saranno le reti” mi dico, “Arriverà la polizia” spero, “Si fermeranno” prego. Si fermano. Ma è un attimo. Come una molla gli inglesi si ritraggono e poi ripartono, ma questa volta non si fermano, continuano ad avanzare. La massa dei tifosi bianconeri si sposta verso le tribune, forse stanno uscendo. Da qui vedo che molti si riversano sul campo di gioco. Forse gli addetti hanno aperto i cancelli e per evitare problemi li fanno entrare sulla pista. Il settore è quasi vuoto. E quelli del Liverpool si sono fermati; lentamente ritornano verso i loro settori e cantano. Cerchiamo di capire, ma da qui è difficile. L’altoparlante dello stadio non da comunicazioni. Speriamo che non rimandino la partita. Sarebbe il colmo essere venuti fin qua per non vederla. Passano i minuti. Il settore degli juventini rimane vuoto, i suoi occupanti sono tutti in campo. Mi sembra di sentire delle sirene. Stanno arrivando i rinforzi per la polizia, oppure sono ambulanze, forse qualcuno si è fatto male. Intanto il tempo trascorre, adesso troppo in fretta. Ma insomma, cosa fanno, perché non dicono nulla? L’altoparlante dello stadio comincia a emettere suoni, ma la confusione è tanta e i messaggi arrivano frammentati. Riusciamo a capire che i capitani delle squadre leggeranno un comunicato. Si sente una voce timida, è Scirea ci dicono: “La partita verrà giocata per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno. State calmi. Non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi” . Poi un’altra comunicazione, questa volta in inglese. Questi è Neal, il capitano del Liverpool. Non riusciamo a capire. Ma la partita è valida?Intanto il campo è sempre pieno di persone, a cui si vanno aggiungendo squadre di poliziotti o soldati che si dispongono attorno al perimetro del terreno. Se possibile, il trambusto aumenta quando entrano in campo alcuni calciatori della Juve circondati da un gruppo sempre più folto di persone. Arrivano quasi sotto la nostra curva. Nella calca mi sembra di riconoscere Cabrini, ma non ne sono certo. E’ tardi, l’orario di inizio è trascorso. Scirea ha detto: “Giochiamo per voi”, spero che non ci abbiano ripensato. Impercettibilmente il campo si svuota, tutte le persone che c’erano prima sono scomparse. Forse i tifosi della Juve scesi sul terreno di gioco sono stati smistati in altri settori dello stadio. Abbiamo notato che molti spettatori dei distinti alla nostra destra sono andati via. Forse si sono impauriti per il trambusto. Vediamo un varco nella rete divisoria fra i settori e molti tifosi della curva ci passano attraverso per spostarsi nei distinti. Lo facciamo anche noi, vogliamo vedere un po’ meglio. Non c’è nessuno ad impedicerlo.Sono già passate le nove, quando inizia la partita. I minuti prima lentissimi adesso passano troppo velocemente. Le squadre giocano abbastanza bene, sembra tutto normale. Voglio pensare che sia tutto normale. Noi facciamo qualche azione buona, ma anche loro non scherzano. Sono forti, lo sapevamo. Tacconi si supera in più di una occasione. Finisce il primo tempo sullo 0 – 0. Facciamo qualche commento, ognuno ha la sua ricetta per vincere, ma non sembriamo molto convinti. Un’ombra ci opprime. Entrano le squadre per la seconda parte della gara. Nella Juve non è cambiato nessuno. Passano una decina di minuti, poi un lampo. Boniek parte al galoppo. Sale l’incitamento, che diventa un boato quando i difensori del Liverpool lo stendono nei pressi dell’area. Rigore! “Ma, c’era?” . L’arbitro dice di si. Tira Platini. Proprio sotto la curva degli incidenti. Contrariamente al solito, questa volta lo guardo tirare. Gol! Stiamo vincendo. “Manca molto?”. Adesso il Liverpool non ci sta a perdere e ci comprime nella nostra metà del campo. Il cuore sta facendo gli straordinari. Tacconi para anche lo mosche. E’ quasi finita. Una sostituzione per la Juve. Esce Briaschi, entra Prandelli; ci copriamo, il Trap ha aspettato più del solito a farlo. Manca pochissimo. Un’altra sostituzione. Esce Rossi ed entra Vignola. E’ finita! Abbiamo vinto. Ci abbracciamo. Gino piange, ma non vuole farsi vedere. La curva alla nostra sinistra, dove eravamo prima è una marea bianconera. Aspettiamo la premiazione, vogliamo la coppa più desiderata. Il tempo passa ma non vediamo nulla. Ce la siamo persa? Altri minuti, non si vede nessuno. Ma che fanno? Hanno cambiato il rituale? No, ecco i giocatori che arrivano. Non ci sono tutti. C’è Platini che corre sotto la curva. Foto. Passano Tardelli e Boniek proprio davanti a noi. Altra foto. Questi coi baffi chi è? Favero. Altra foto. Non vedo altri juventini. Ma dov’è la coppa?Non c’è più nessuno in campo, esclusi poliziotti ed addetti. Lo stadio si sta svuotando, per stasera non fanno altro. Decidiamo di uscire. Torniamo al pullmann. Occhio alle maglie rosse. Dopo quello che è successo, non si sa mai. Ci rimettiamo in viaggio. Appena fuori Bruxelles, ci fermiamo in un posto di ristoro. E’ chiuso. “Ma come? Da noi sono sempre aperti o quasi.”. Proseguiamo. Abbiamo fame. Un altro autogrill. Come non detto. Appena vede arrivare i pullmann, qualcuno pensa bene di chiuderlo. Ci teniamo la fame, ci arrangiamo per i bisogni fisiologici e ripartiamo. Viaggiamo tutta la notte e arriviamo al confine svizzero alle prime luci dell’alba. Finalmente, un autogrill aperto. Ci fermiamo e assaltiamo letteralmente il bar. Ci guardano in modo strano. Una cameriera piange. Che succede? Io cerco l’espositore dei quotidiani. Voglio comprare una copia della Gazzetta per conservarla come ricordo. Non la trovo. Ci sono solo giornali in lingua tedesca. Ne compro uno. Ho una conoscenza scolastica del tedesco, ma riconosco il vocabolo che campeggia in prima pagina vicino ad un numero troppo alto per essere vero, ‘Toten’; e le immagini che vedo mi scavano un solco profondo nella mente e nel cuore. Per sempre.…Siamo a casa nel primo pomeriggio. Un conoscente mi offre un passaggio dal terminal degli autobus fino a casa mia. Mi dice che in paese mi davano per disperso. Risultavo capogruppo nell’elenco dei tifosi partiti da qui. Quelli che sono venuti alla partita in aereo sono tornati prima di noi, ed hanno raccontato di aver sentito il mio nome chiamato più volte dallo speaker dello stadio. Mi sembra incredibile, io non ho sentito nulla. Mi dice anche che la mia ragazza ha telefonato al Ministero degli Esteri. Non le hanno saputo dare notizie. Arrivo a casa. Mia madre mi abbraccia e piange. Mio padre non mi dice nulla. Mi guarda e parte per andare al lavoro. Anni dopo mi dirà di non aver provato una paura simile nemmeno ai tempi della guerra. Non ho mai voluto guardare la registrazione di quella serata."

Sergio

La ciccarizza, il circo e tutto il resto



Cummare Teresa. Una donna rimasta senza marito troppo presto. Un marito che per me, ancora bambino, era colui che era ritratto nella foto del quadro affisso nella mia aula, quella delle scuole elementari, sullla parete che stava alle spalle del maestro Mazzè, quello che suonava la fisarmonica, come quella della canzone di Morandi. L'allora presidente della repubblica Leone, quello che c'era prima di Pertini. Una donna rimasta troppo presto da sola con dei figli da crescere, o meglio "d'avanzare", ed una potiha, quella di alimentari, da portare avanti. I figli, nei miei ricordi, mi sembra fossero tre. Una femmina di cui i ricordi, quelli di prima, sono vaghi, il già citato Toniucciu, quello dell'immancabile terza categoria, e Francesco, che ricordo sia per la sua stazza sia perché aveva un cane che come stazza più o meno lo eguagliava. Ma mentre il cane non metteva paura nemmeno nelle rarissime volte in cui abbaiava, lui solo a guardarlo incuteva timore. Il cane si permetteva di uscire da solo per farsi la passeggiata e fare i suoi bisogni. Era sempre mansueto tranne la volta in cui "Frangu Cingumila" gli voleva aizzare il suo di cane, Argo. Perché a suo dire lo avrebbe sistemato. "Si nciu liberu su mangia". (Con il suo marcato dialetto pizzitano. Nel paese si parla un dialetto molto diverso da quelli del circordario. Somiglia di piu' a quello salentino che a quello vibonese). Anche se poi alla fine se non fosse intervenuto Francesco le cose sarebbero finite diversamente, molto diversamente. Ma l'episodio che riguarda la protagonista di questo racconto, avvenne davanti alla sua potiha, quella di alimentari sita in via Fiorentino, nel primo anno in cui il circo arrivò a Sannicola, non quello Orfei. In quell' episodio cummare Teresa dimostrò di che pasta, non quella che vendeva nel suo negozio, quello di alimentari sito in via Fiorentino, fosse fatta e che tempra, non il modello di macchina della FIAT, gli anni gli avessero dato. Il circo stazionava "supa a Micu de Lena" ma i componenti di questo venivano spesso in paese per le loro commissioni e per le loro piccole spese giornaliere. Tra questi c'era un' avvenente signora, dalla bionda chioma, che con la sua macchina si fermava lungo via Fiorentino ogni qual volta doveva entrare in qualche posto, farmacia, comune, ecc. finché non si fermò poco avanti alla potiha de cummare Teresa, quella di alimentari sita in via Fiorentino famosa per il registratore di cassa parlante. A quel punto, dopo innumerevoli fermate, il traffico andò in tilt, come avviene solitamente nelle grandi città nelle ore di punta. Al che cummare Teresa indispettita venne fuori dalla potiha, quella di alimentari.. beh lo sapete gia'... ed intimò alla sconosciuta donna dalla bionda chioma, quella del circo che quell'anno per la prima volta arrivò a Sannicola e che stazionava supa a Micu de Lena: "A mu ti move mu ti nde vai cu sa machina, ca no passa cchiu nujru!!". Ora non so se la signora dalla bionda chioma avesse capito quelle parole dette in dialetto, quello del paese, ma essendo anch'ella una donna che nella sua vita da "nomade" ne aveva viste di tutti i colori, come quelli del costume del clown che faceva parte del circo che quell'anno per la prima volta arrivò a Sannicola e che stazionava supa a Micu de Lena, si sentì in obbligo di rispondere a tono: "Se vengo lì la prendo a schiaffi!!". Ma cummare Teresa per nulla intimorita, non come noi quando vedevamo arrivare il figlio Francesco, controbatté all'istante, a suo modo e con atteggiamento irrisorio disse: "Ancora no venisti!!". La donna rimase attonita, come la terra al nunzio sta, quella dell' ode del Manzoni, e non poté far altro che mettersi la coda tra le gambe, come gli animali del suo circo che come detto quell'anno per la prima volta arrivò a Sannicola e che stazionava supa a Micu de Lena, salire in macchina e dar fine a quell'ingorgo che aveva stizzito cummare Teresa, come quella volta che... A dire il vero non conosco altre situazioni come questa o per lo meno non ne sono stato testimone, come quelli chiamati alla sbarra in tribunale, come si vede ad un giorno in pretura, come potremmo andare avanti all'infinito, come quello di Leopardi, non quelli del circo, anche perché il circo che quell'anno per la prima volta arrivo' a Sannicola e che stazionava supa a Micu de Lena, di leopardi non credo proprio ne avesse. Ma alla ciccarizza di tutto questo resto non importavana nulla. A lei importava solo del resto da restituire ai propri clienti, quelli della sua potiha di alimentari sita in via Fiorentino famosa per il registratore di cassa parlante.

Un mondo favoloso?!?




In questi giorni gli eventi, ma più che altro il loro preannuncio, spingeranno molti bambini e ragazzi a chiedersi cosa a sua volta spinge una vecchia, brutta, con le scarpe tutte rotte a girare di notte casa per casa a lasciare regali. Per di più in notti molto fredde. Molti si chiederanno, anche, come fa una povera vecchia, descritta come una stracciona, ad avere la possibilità di consegnare regali e regali, alcuni dei quali anche molto costosi. Altri, anziché regali, riceveranno dolciumi, ironia della sorte, dentro a delle calze. Che se tanto mi dà tanto, una che va in giro con le scarpe tutte rotte in che condizioni potrà avere le calze? Per questo alcuni hanno iniziato a non lamentarsi più di aver ricevuto solo carbone accontentandosi di qualsiasi cosa piuttosto che mettere mano su quella razza di feticcio. Oggi molti giustificano l'esistenza della befana considerandola come la concorrente in gonnella di babbo natale. Considerandola, anche, come una paladina del gentil sesso che avvicina le donne agli uomini anche da questo punto di vista. Se non altro babbo natale viene descritto, intanto, come un uomo paffutello, quindi di buona forchetta. Con un bel vestito rosso ed una barba bianca e folta ed anche curata. Ma soprattutto come un uomo che può permettersi una mega slitta, trainata da innumerevoli renne, capaci di farlo spostare da una latitudine all'altra della terra. Senza timore di trovarsi a piedi nudi sopra la neve. Come qualcun'altra. Del resto il fatto che venga da un paese con un clima molto rigido, ed essendo arrivato ad una veneranda età, dimostra ancor di più che poi tanto male non se la passa e quindi può permettersi di fare, appunto, il babbo natale della situazione. L'unico problema per babbo natale è quello che in molte case non esiste più il caminetto, anche se a dire il vero non è che si sia mai saputo come la befana faccia ad entrare nelle case. Forse la nonnina di prima professione fa il topo d'appartamento. Il problema principale, che colpisce, in questo caso gli adulti, è quello di fare bene attenzione a non dire che questi personaggi non esistono e che sono solo frutto dell'immaginazione o delle vecchie storie, tramandatesi, forse, originandosi da vecchie credenze popolari. Perché si rischia grosso, come addirittura perdere il proprio posto di lavoro. Fatto successo ad un insegnante inglese che è stata licenziata per aver cercato di far credere, ai propri alunni, che babbo natale non esistesse.

 

 

Le favole favolose sono sempre esistite, da che il mondo è immondo. Pensate a come siamo dovuti crescere, sentendoci raccontare una favolosa favola, in cui una brava bambina che andava a portare il cestino, chissà poi pieno di cosa, alla nonna, si imbatte in un brutto lupo cattivo che vuole mangiarsela, e ci riesce pure, raddoppiando la razione, facendo di un sol boccone pure della nonna, del resto lo sanno pure i lupi che gallina vecchia fa buon brodo. Per fortuna che poi arrivò il cacciatore che, tagliando la pancia al lupo, riuscì a trarre in salvo le due malcapitate. Chissà come e perché ancora vive all'interno della pancia del brutto lupo cattivo, al quale andava fatta un’autopsia per capire se la vera causa fosse l'indigeribilità' della famiglia di cappuccetto rosso. E che dire di una bravissima ragazza così casta e pura che veniva chiamata Biancaneve, che faceva da colf a sette nani? Chissà mai il perché? Forse anche lei aveva sentito raccontare quell'altra favola in cui si dice, senza offesa per nessuno, che quelli bassi sono lunghi lì? In questa favolosa favola una strega cattiva la volle avvelenare. Perché invidiosa della sua bellezza, oppure perché invidiosa del fatto che Biancaneve avesse sette nani, solo in altezza, tutti per sé? Ma anche qui succede l'inverosimile, allorché arrivò il principe azzurro che dandole un bacio la fece ritornare in vita. E chissà mai, ancora, il perché questi a quel punto non ritornò più con i sette nani ma rimase con il suo nuovo principe. Non e' che questi non fosse altro che John Holmes? Di favole favolose ce ne sarebbero a decine. Vogliamo parlare della favola favolosa di Pinocchio? Geppetto falegname intaglia un pezzo di legno e questo per miracolo assume sembianze umane diventando Pinocchio. Ma questo bambino fu costretto a subirne di tutti i colori da una fatina che gli fece crescere le orecchie come un asino. Fu costretto a subirsi le paternali dal grillo, come i governi e molti altri, oggi, subiscono quelle dell'altro Grillo… Beppe. Anche qui, come in cappuccetto rosso, un animale li divora, una balena, anzi divora il babbo che addirittura ci abita all'interno. Con quel che si paga di affitto, avrà pensato, questa sì che è una favola vera!!! Anche per questa favola la spiegazione più plausibile è quella sessuale. Una fatina pedofila che fa crescere il... naso a Pinocchio, non prima, però, di averlo irrigidito, trasformandolo in legno. Le favole favolose sono queste. Lupi, orchi, streghe cattive. Da qui ognuno comincia a porsi le fatidiche domande: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Ma si ha la prima risposta definitiva, almeno una, quella che non siamo in un mondo favoloso, ma in un mondo di favole, di merda, sia le favole che il mondo.

La scuola di San Nicola al quiz Zero in condotta


Carnevale 1979

                                                                       
                                       

"Cerasole" o "ciarasole"?




Qual'e' la pronuncia corretta per chiamare i "peperoni" in dialetto?
Io sono sempre stato convinto che si dicesse "cerasole", e continuerò a chiamarli così. Durante, l'annuale, cena conviviale offerta dal comune, alcuni, hanno corretto il mio modo di chiamare i peperoni. Allora al volo ho fatto un mini sondaggio in piazza e mi sono accorto che la maggior parte delle persone diceva "ciarasole", però, allo stesso tempo, una persona su 3 o 4 li chiamava "cerasole", come me. Allora ho chiesto al maestro Mazzè, persona informata sui fatti, che mi ha assicurato che la pronuncia corretta fosse "ciarasole". E voi come li chiamate? Provate a fare pure voi un mini sondaggio e vi accorgerete del diverso modo di chiamare la stessa cosa. Al di la del nome, sono buonissimi, tant' e' che la celeberrima canzone di Valeria Rossi, Tre parole, nasce appunto da li "cerasole". Solo tre parole: "patati e cerasole".


L'immancabile "terza categoria"






Nel mio passato il periodo di fine estate coincideva con l'inizio della preparazione atletica per affrontare l’imminente campionato di terza categoria con le maglie dell’ARCI UISP Crissense. Preparazione che veniva annunciata, presentata e programmata con l'immancabile incontro presso la sede del circolo ARCI, tra tutti i componenti del "gruppo", dal presidente, all'allenatore, ai sostenitori e naturalmente ai calciatori. I più giovani di questi ultimi, reclutati dal talent scout Toniuccio, che quando serviva qualche giovane cliente presso il negozio di sua madre, immancabilmente gli chiedeva: "Quanti anni hai? Vuoi essere cartellinato con l'ARCI?". Così come immancabilmente negli ultimi anni l'allenatore sarebbe stato "Lu zzu Gore" (Lo zio Gregorio). Il quale altrettanto immancabilmente, durante l'incontro di "programmazione”, tesseva le lodi di "Raffelinu Gallorinu", come da lui chiamato, presentandolo come il giovane più promettente ed una futura realtà per la nostra squadra. A dire la verità Raffaele ha sempre avuto del talento evidenziato dal fatto che fosse mancino, anche se da lì in poi non fece mancare esilaranti accadimenti. L'immancabile preparazione aveva inizio con sedute atletiche, nella zona "Camunni" (Pineta vicina al paese) o presso il campo sportivo, non uno di preciso tra Sannicola, Vallelonga, Filogaso, Capistrano. Quando c’era brutto tempo si sceglieva Filogaso in quanto secondo Vittorio a Filogaso era sempre primavera. Vittorio era il factotum della squadra: Presidente del circolo, magazziniere, finanziatore, giocatore, preparatore atletico, allenatore in campo, autista, segnalinee, inteso come tracciatore, e chi più ne ha più ne metta. Durante gli allenamenti Vittorio ci esortava a fare le respirazioni rivolgendoci con il viso dalla parte in cui, secondo lui, arrivava l'ossigeno: "De jra vene"(Da lì viene), solitamente, quando eravamo allu Critaru (Toponimo), verso Coppari (Vulcano spento). Agli allenamenti immancabilmente c'erano i concerti flatulenti alle spalle di Pileggione (Il capitano), il quale non poteva fare esercizi ginnici a terra perché, a suo dire, avrebbe sporcato la tuta e sua madre non gliela avrebbe lavata. Tute che nell'anno in cui ci vennero regalate dal nuovo "sponzorro” (Sponsor) come lo chiamava Nicola T., Rauti di Chiaravalle, andavano bene, vista la taglia, solo a Vittorio ed a Raffaele Famoso. Da notare che Rauti era quello di Alleanza Nazionale mentre il circolo ARCI era notoriamente un circolo di comunisti. Se le tute erano piccole, la divisa del portiere era così bella che Nicola T. si ripromise che la sera sarebbe uscito, con la maglia indosso, in piazza con la moglie a passeggio. Con l'inizio del campionato si svolgevano settimanalmente due allenamenti, a cui era indispensabile partecipare pena l’esclusione dai convocati visto che la formazione era sempre la stessa sia che giocavamo contro la prima sia che giocavamo contro l’ultima. Il sottoscritto poche volte faceva parte della lista dei convocati, visto che era quello che scriveva i manifesti per L’ALLANAMENTO e molto spesso pubblicava la lista dei convocati, precedendo Lu zu Gore, forse perché avevo avuto qualche soffiata, difatti dalla lista non potevano mancare Natale Lino o Natalino (!?!), nessuno ha mai ben capito quale fosse il vero nome, Andreotti, non il ministro e i due Mari, che poi diventarono tre. Questi erano gli stranieri della squadra. Se non altro il sottoscritto prese parte alla lista dei convocati quando si dovette andare a giocare a Fabrizia, una partita di recupero, da giocare il mercoledì alle 14:30, dopo che la gara era stata rinviata per neve. Quel giorno i giovani reclutati da Toniuccio, tornammo prima da Vibo, quindi dalle scuole, per arrivare per tempo a Fabrizia. I convocati eravamo 16 così quanti ne potevano entrare in distinta e quindi anche poter entrare nel recinto del campo sportivo. Se non che Lu zzu Gore ancora alterato per le mie "anticipazioni" e perché gli avevo detto che non lo avrei votato alle elezioni comunali. Consegnava all'arbitro una distinta di soli 15 giocatori e il sottoscritto si dovette godere la partita all'infuori del recinto che delimitava il campo sportivo. Fu così che di mercoledì ed in un paese lontano avevamo almeno un sostenitore. Però oltre il sottoscritto nemmeno il suo "pallino" gli fece mancare momenti di gioia. Uno dei tanti quando andammo a giocare a Melicuccà. Una partita equilibrata così come il risultato, 0 a 0 fino ad un quarto d'ora dalla fine, quando successe l'irreparabile. Non si sa come, l'arbitro ci assegnò un rigore, e li successe un putiferio, l'arbitro venne selvaggiamente picchiato da persone entrate in campo dall'esterno. Noi non potemmo fare altro che metterci in disparte, avete presente la zona? ed aspettare che il tutto finisse, così come fece l'arbitro, che, una volta finita l'aggressione, si ritirò negli spogliatoi per redigere un referto, ma volle comunque continuare la partita pro forma. Allora rimase il rigore da battere e la decisione su chi farlo tirare spettava all'allenatore. E chi meglio di Raffelino Gallorino? “Rafele tiralu tu!” -"Bene!" Raffaele con il suo mancino spiazzò il portiere ma la palla malauguratamente finì sul palo e tornò fuori area, la partita finì 0 a 0 e tutti noi a dire: "Tutte quelle mazzate all'arbitro per un rigore sbagliato?". Chissà cosa potesse pensarne il povero malcapitato. Le partite continuarono così come i campionati. E venne un periodo in cui l'allenatore non fu immancabilmente lu zzu Gore ma Vittorio. Adesso faceva anche quello. Forse perché lu zzu Gore rimase scottato dalle mazzate che immancabilmente prendemmo in seconda categoria, a tal punto da abbandonare la carica. Si perché per un anno l'immancabile terza categoria mancò, perché fu seconda categoria. Un regalo da parte della federazione perché immancabilmente Vittorio iscriveva la squadra alla terza categoria. Una partita indimenticabile, anche per la pioggia a catinelle, fu quella contro Pizzoni, al campo sportivo di Capistrano. In quella partita ero titolare. Non c’era più l’altro allenatore. Addirittura segnai il gol del 3 a 0 finale. Partita in cui Bruno G., vista la pioggia, voleva giocare con un cappuccio in testa, con Vittorio che lo esortava a non farlo in quanto sarebbe stato "Cchiù dannoso"(Più dannoso). Il cappuccio della felpa, durante il riscaldamento lo mise anche Nicola T., facendolo esaltare a tal punto da farlo sembrare, a suo dire, "Rocki Barbera". La partita cominciò sotto una tempesta mai vista e Vittorio faceva l'allenatore e contemporaneamente il giocatore. Nonostante le "mazzate" e la pioggia a lu zzu Gore il calcio faceva sangue e quel giorno venne a vedere la partita rimanendosene all'asciutto ed al calduccio della sua macchina. La pioggia nel secondo tempo cessò ma rimase qualche pozzanghera qua e là, il campo di Capistrano è sempre stato uno dei migliori come drenaggio. Ma il destino come si sa, si ripete. E anche in quell’ occasione ci venne assegnato un rigore. Fortunatamente l'arbitro non venne picchiato. Ma cosa successe? Lu zzu Gore scese dalla macchina in preda all'istinto di salvaguardare il proprio pupillo ed esclamò a gran voce: "Oh Vittorio fa mu lu tira Rafele!!!!!!!". Al che Vittorio non seppe dire di no e Raffaele si apprestò a tirare il rigore. Rigore che immancabilmente fu tirato di sinistro ed immancabilmente il portiere venne spiazzato. Ma anche, ahinoi, immancabilmente il rigore venne sbagliato. Ma stavolta non fu il palo a fermare Raffelino Gallorino, ma, visto che il tiro era rasoterra, una pozzanghera, ad un metro dalla porta, dove il pallone rimase arenato. Vittorio partì con la sua collera contro Raffaele il quale secondo lui non avrebbe dovuto presentarsi sul dischetto con un campo in quelle condizioni, perché troppo "leggerinu" e che non avrebbe dovuto tirare rasoterra, eppure ce lo aveva mandato lui sotto l'egida dell'ex allenatore. Fortunatamente a conclusione di ogni campionato, negli ultimi anni, ci fu anche l'immancabile cena del rompete le righe, e anche lì avvenivano le immancabili cose turche, ma queste forse le racconteremo un’altra volta insieme a tutti gli altri aneddoti dell'immancabile terza categoria.

La conversione di Vittoriejro?






Dopo il pellegrinaggio "alla Grazzia" a Torre di Ruggiero, documentata su questo sito. Vittoriejro vuole dare prova tangibile del suo rinnovamento spirituale, l'occasione ghiotta e' la festa degli emigrati 2006, da lui, come sempre, organizzata, massima espressione del suo IO (SUO ? ). Nella tradizionale riffa, organizzata per raccogliere fondi indispensabili per la riuscita della festa, per 2° premio viene messa una statua di Padre Pio(vedi foto) che secondo indiscrezioni Vittorio avrebbe comprato già un paio di anni prima. Fatto sta che Vittorio, per incrementare le vendite di biglietti, durante le serate "festive" metteva in bella mostra la statua davanti al proprio circolo, creando una discutibile connessione tra sacro e profano. Sembra che durante queste serate siano apparsi dei cartelli "Parrocchia San Vittorio" e addirittura degli oboli per le offerte dei fedeli. Il fatto curioso era che, in fondo, nemmeno lui ne fosse tanto convinto di questa conversione,tant'e' che dopo la riffa avvenuta il 13 agosto, durante la quale il sottoscritto faceva notare che, intanto,la festa si era protratta per un giorno in più profittando della mangiata offerta dell'amm. comunale, e che Vittorio aveva intenzione di fare concorrenza alle feste organizzate dalle due Confraternite con la nascita della Confraternita Padre Pio, per alcuni giorni nessuno si fece avanti per ritirare il premio (ritirato poi da Maria Trombì) e Vittorio cominciava a denotare segni di insofferenza: "Chistu e' nu menzo miraculu,voi vidire ca no si la pigghia nujru ?!?. La mento all'asta a cui mi offre decchiù!! ". Fortunatamente dopo un paio di giorni la statua venne ritirata e Vittorio cercò di convincere i presenti(io,Filippo della Pennsylvania,Bruno Galati e il sommo poeta) della sua impossibile conversione, "dimostrabile scientificamente", con un arringa delle sue. Si dice che un indizio e' un indizio,ma che due indizi sono una prova. Ora non ci resta che attendere futuri sviluppi che, visto il personaggio, non mancheranno di sicuro.

Una lenta ed inesorabile agonia


L'agonia di un paese, ed insieme l'agonia della nostra anima


Si perché la nostra anima ha bisogno di sapere che le proprie radici sono forti, che rimangano indifferenti al passare degli anni,anzi, ove possibile ,che si rinvigoriscano ancor di più. Oggi mi ritrovo ad invidiare, ciò che pensavo potesse valere anche per me, e cioè, quelli che cantano “Piccola città eterna” (se ripassate tra 100 anni ci trovate sempre qua). Un paese che oggi conta, appena, 1520 residenti, che escludendo gli emigrati ancora residenti e gli studenti universitari conterà, si e no, 1300 anime. Negli ultimi anni l'emigrazione e' continuata in modo repentino, proprio negli anni in cui qualcuno, cercando di ingannare, anche se stesso,ci voleva far credere che “l'esodo” fosse finito e che era incominciato “il ritorno”. Negli anni i punti di ritrovo culturali(CCAR,ARCI)sono diventati delle semplici sale giochi, per non citare gli altri che sono letteralmente scomparsi( sezioni di partito, circolo cacciatori, sala congrega ecc.). Oggi i punti di ritrovo, culturali e non, sono diventati i bar, tant'è' che il parroco ha organizzato degli incontri con i giovani, proprio presso questi locali, come dire se la montagna non va da Maometto e' Maometto ad andare alla montagna. Insieme a tutto questo sono scomparse anche le manifestazioni, perché no, anche culturali(festa dell'amicizia,festa de l'unita',ecc.). E' rimasta solo una “malinconica” festa degli emigrati, che mentre negli anni passati vedeva alle proprie spalle un vero e proprio comitato organizzatore, ora conta solo su una persona che fortunatamente si avvale dell'indispensabile contributo di un politico “compaesano”. Un'attività' culturale e' portata avanti da un inesistente “pro loco”, con un periodico cartaceo che tratta, beffardamente,di storia del passato di antropologia, seguendo alla lettera il detto: ”non si può andare avanti senza tornare indietro”. Ma, ammesso e non concesso che ci si e' prefissati l'andare avanti, in che modo lo si fa? Si tratta troppo la cultura del passato e non la cultura del divenire. Così come, da noi(Sannicola) si e' sempre trattato della cultura della morte e non della vita. Le prove di oggi rispecchiano quelle del passato,al sito della confraternita, che aggiorna costantemente i visitatori sugli avvenuti decessi dei nostri compaesani, fanno da riflesso quelle impresse nero su bianco sul libro “Le strade di casa”. In nessuno dei due casi viene trattato l'argomento “nascita”, come se questo non fosse la cosa più importante della “vita”. E come se, soprattutto nel libro, la nascita e tutti gli usi che ne conseguono non facessero parte della nostra tradizione e cultura. Si e' voluti, forse, sempre, trattare le cose di cui si ha paura quasi come fosse un rito scaramantico. Pochi anni fa,in un consiglio comunale “open air” che si suole svolgere annualmente, l'amministrazione ci annunciava la nascita del nuovo web site del comune come il miglior modo per restare al passo coi tempi. Oggi di quel “progetto” rimangono solo poche pagine su cui leggere i nomi dei componenti del consiglio comunale, peraltro goffamente errati. Oggi tutto ciò ci viene riproposto,sempre con le stesse modalità, dai rappresentanti del  “CCLAB” sannicolese a Toronto. Ci viene riproposta la creazione del “WWEB SAIT”, dimenticando che ad oggi ci sono già molte possibilità in rete per scambi culturali, o solo per interloquire con “il villaggio” o i compaesani sparsi per il mondo, da questi non mi sembra sia stato mai fatto. Intanto i giovani continuano a lasciare, o meglio si vedono costretti a lasciare la propria terra, in cerca di altre. Molto più fertili per le loro menti. Anche se tutto questo e' dovuto/voluto dalle politiche nazionali e comunitarie. La speranza, paradossale, e' che ciò che l'emigrazione ha tolto, sia ripianato, almeno in parte, dall'immigrazione.
 
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