Sono
le cose che non scegliamo a renderci ciò che siamo. Di sicuro questa
non l’abbiamo scelta e penso che abbia contribuito a renderci ciò che
siamo. Per me e per molti altri, per generazioni, alla nascita il
genitore maschio sceglieva anche a quale confraternita dovevi essere
iscritto. Del Crocifisso o della Madonna. Nel primo caso diventavi una
pecora rossa nel secondo una pecora bianca. Ma questo valeva solo per i
maschi. In quanto se alla confraternita
potevano essere iscritti sia donne sia uomini. Alla processione vestiti
con camice e mozzetta potevano partecipare solo i maschi… Alle donne
iscritte, all’una o all’altra confraternita, era solo riservato
l’accompagnamento all’ultimo viaggio da parte dei “fratelli”, della
propria confraternita. Le “sorelle” non erano ancora previste. Il colore
delle “pecore” dipendeva dal colore della “mozzetta” o mantellina. I
camici erano per entrambi bianchi. L’appellativo di pecora nacque con
l’arrivo del vestiario chiamato “cambius”. Nella rivalità delle
confraternite c’era anche questa cosa qua. La cosa era molto più sentita
dagli anziani. Una di queste una volta, mentre venivo definito pecora
bianca, mi disse: “Meglio essere una pecora bianca che una pecora rossa.
Perché le pecore rosse nemmeno esistono”. Nei giorni delle processioni
c’erano gli sfottò. Un po' come per le squadre di calcio. Solo che per
quanto riguardava le confraternite il tutto si consumava nei giorni in
cui ci si “vestiva da fratello”. Durante la processione che riguardava
solo la propria confraternita gli sfottò erano pochi. In quanto “i
rivali” non uscivano tanto di casa e non andavano alla processione per
non aumentare il numero dei partecipanti alla festa. Tutto si
amplificava quando c’erano le processioni a cui partecipavano entrambe
le confraternite.
Quando passava la confraternita rivale le donne
davanti all’uscio di casa ti guardavano male e alle volte sentivi
qualche “Eh, pecora bianca”. Tra noi ragazzi invece lo sfottò avveniva
nelle vie del paese in cui si doveva fare inversione di marcia e le due
colonne bianca/rossa e bianco/nera si incrociavano. Ecco una delle cose
che col passare degli anni mi piaceva della mia confraternita. I colori.
Lo stendardo era bianco intarsiato di stelle color oro e i bordi neri.
Uno dei portatori dello stendardo era mio padre quindi io avevo l’onore
di tenere i “cimboli”. L’altro portatore era Mastro Toto. Quindi i
portatori dello stendardo erano due Antonio. E i “cimboli” li tenevamo i
due Pasquale. I due figli portavamo, tanto per fare il gioco di parole,
anche lo stesso nome. Nelle zone periferiche lo stendardo veniva ceduto
anche a Nicola C. e al giovane Gregorio F. Durante quegli anni feci
anche da chierichetto nella chiesa della Madonna del SS. Rosario e
andavo con il parroco quando c’era da dare l’estrema unzione. La
carriera da chierichetto penso finì quando a sette, otto, anni il prete
mi portò con sé a dare l’estrema unzione a un uomo che si era impiccato.
Che viso può avere un morto, giovane, e per di più morto in quella
maniera? A Don Vincenzo come si faceva a dire di no? Alla domenica dopo
la messa nella chiesa piccola se ne faceva un’altra nella chiesa più
grande. Noi ragazzi nella parte posteriore della chiesa, giocavamo a
biglie o meglio a palline. La canonica e la chiesa erano adiacenti e Don
Vincenzo facendo i due metri tra la porta della canonica e la porta
della chiesa, ci avvertiva: "Guardate che tra mezz’ora inizia la messa.
Mi raccomando tutti in chiesa". – "Si, si, Don Vincenzo non vi
preoccupate". Noi speravamo di essercela cavata in quel modo. Ma un
minuto prima dell’inizio della messa usciva fuori e ci costringeva a
entrare. La sera, invece, alla Congrega, anche se dell’altra
Confraternita, ci andavamo di nostra sponte. O almeno sapevamo che chi
non vi partecipava non poteva entrare nella sala della Confraternita a
guardare la TV o a giocare a carte e ping pong. Don Vincenzo aveva una
127 rossa. Anche lui. Solo che la sua era il modello più vecchio di
quella di Vittorio. E un rosso meno acceso. Quando capitava che ci
riportava da Vibo, sulla Panoramica, ci spiegava come bisognava tenere
lo sterzo. "Come si tiene in formula uno". E quando era al massimo della
velocità, si lamentava perché il motore della sua 127... “mi chiede la
quinta”. Come diceva lui. Per la mia Confraternita i “cambius” erano
conservati da compare Nicola e comare Angelina. Loro erano anche i sarti
che li facevano su misura. Ma solo ai confratelli più importanti. La
chiesa e le confraternite sono il posto in cui si rispettano le
gerarchie più che in una caserma militare. Il giorno della processione
ti presentavi in chiesa e compare Nicola ti guardava e sapeva già quale
misura darti. Alcune mozzette avevano delle sigle all’interno, ma solo
lui ne capiva il significato. In pochi tenevano il proprio cambius a
casa. Quando venne l’età di cambiare taglia, comare Angelina disse al
marito, compare Nicola: “A Pasquale dobbiamo fargli un cambius su
misura. Non vorrai mica che un giorno faccia come suo zio Vito che ha
cambiato confraternita perché se l’è presa?” Mio zio da “rosariante” era
passato a “crucifissante” ed era diventato uno dei confratelli più
ferventi di quella confraternita. Chi non ricorda quando domenica delle
Palme arrivava con mezzo ulivo sulle spalle… “Quando puoi passa da casa
nostra che ti facciamo un cambius nuovo e sarà sempre il tuo”. Dopo
qualche processione un giorno arrivai tardi alla vestizione. E compare
Nicola quando mi vide diventò bianco. Come il cambius. “E tu adesso
arrivi?” – “Compare Nicola, ho fatto tardi, ma sono qui”. – “E adesso
che cambius ti do?” – “Ma come? Io non ho il cambius personale, che mi
avete fatto apposta?” – “Si, ma l’ho dato ad un altro perché ormai
pensavo non venissi più…” Ci rimasi male come non mai. Partecipai a
quella processione ma per me quella fu anche l’ultima.
Nessun commento:
Posta un commento