È
passato il Giro. Il Giro e la Gira erano i soprannomi dei miei nonni
materni. Oggi i ciclisti che partecipano al Giro li chiamano i “Girini”.
Come le future rane. Anche se noi da bambini li chiamavamo
Cucchiarinejre(Cucchiarinelle). Sin da piccolo seguivo il ciclismo.
Anche se non ho mai avuto una bicicletta. Nemmeno una "Graziella". Sono
cresciuto con il dualismo Moser/Saronni.
Io ero per Saronni. Addirittura
affibbiai il nome Saronni a un amico di infanzia. Si chiama Saro come
Fiorello e da lì divento Saronni. Indimenticabili alcuni nomi. Tipo
Urs Freuler, Paolo Rosola. Ricordo De Zan che sparava a caso i nomi di
quelli che attraversavano il traguardo. In Calabria era difficile, per
me, vederne il passaggio. Quelle volte, ogni morte di Papa, in cui
passava. Una volta riuscii a vederlo a Vibo Valentia. Per fortuna era di
mattina e non andammo a scuola per andare a vedere passare il Giro.
Presso l’Hotel 501. Posto rinomato nel bene e nel male.
Negli anni
novanta in Veneto quando si parlava di ciclismo veniva fuori, sempre, il
nome di Coppolillo, unico calabrese al giro. Un mio collega era un
ciclista da scalate dei passi alpini. Una domenica, due gennaio, ricordo
ancora bene, con una temperatura di meno dieci gradi centigradi arrivò
pedalando, con la sua bici da corsa. Da casa sua.
Distava quaranta chilometri.
Distava quaranta chilometri.
Qui dove vivo adesso, capita spesso di assistere al
passaggio del Giro d'Italia. Ancor di più dopo la tragica morte di
Davide Rebellin, perché come è successo ora è passato davanti alla casa
dove abitava. Da più di 30 anni che ci abito vicino. Un bel posto. Che
quando mi chiedono dove abito dico sempre: “In un posto della Madonna”.
Difatti il quartiere si chiama Madonna e anche la via dove abitavamo
prima si chiama Via Madonna.
All’epoca il Rebellin famoso non era Davide
ma suo padre. Gedeone. Aveva un piccolo market. Oggi trasformato in un
bar tabacchi. Il giorno dell'incidente sono passato a una rotonda di
fianco al suo cadavere. Un’autoambulanza, un lenzuolo verde e una bici
accartocciata. Boh chissà chi era... Seppi la sera che era lui.
Addirittura ai tornei di calcetto c’era una squadra che si chiamava “Gli
amici di Rebellin”. Noi avevamo una squadra di cui la maggior parte
erano cinquantenni. Ma eravamo tosti da battere. Anzi battevamo tutti.
Finché in semifinale giocammo contro di loro e dopo venti minuti eravamo
3 a 0 per noi. Mio cognato Raffaele era in uno stato di grazia anche se
arrivava prima la pancia e poi lui. 3 gol alla Romario. Mai visto
giocare di fianco a me un giocatore così forte. E ho giocato anche con
persone che avevano giocato nel Vicenza e in serie C. Da cui ho imparato
molto. Anche se ormai erano passati gli anni in cui si apprende meglio.
Che vuoi imparare a giocare con allenatori che non sanno nulla né di
come si gioca a calcio, né di tecnica, né di niente. Comunque la
partita, ben presto, finì in rissa. Il portiere non ne poteva più di
farsi trattare da birillo da “Romario” e lo prese per il collo. Quindi
volarono calci e pugni. Pochi fortunatamente.
Negli anni novanta mi
capitava spesso di incontrare Bruno Cenghialta e Fabio Baldato. Con cui
si scherzava. Un giorno dissi a Baldato: “Adesso devo chiederti una
cosa. Però devi essere sincero!” Lui mi guardo male. Avrà pensato questo
mi chiede se mi dopo. Basta poco per capire come sono fatto. “Tu una
volta hai vinto in volata a Parigi buttandoti nella mischia come un
matto. Sarà che adesso hai famiglia e non lo fai più?” – “Si è vero solo
da giovani si fanno le pazzie”.
Per quanto riguarda il doping iniziai a
non seguire più il giro, da tifoso, da quando anche i miei beniamini
venivano beccati per ematocrito alto. Chiaro segnale di doping. Della
cosa poi mi assicurò un ragazzo, del posto, che doveva passare ai
professionisti.
Disse che aveva rinunciato al professionismo in quanto
gli avevano prospettato la storia delle trasfusioni. Oggi vende le
biciclette. La passione rimane.
Come per me. Quando abitavamo in via
Madonna lavoravamo per la Campagnolo. E con i Girini, il Giro, le bici e
le squadre dei corridori, avevamo molto a che fare. Tornò la passione.
Ma più che per i ciclisti era per le bici. Raggi, mozzi, cambi, telai,
pedali. Per i raggi ci toccava andare in Belgio a prenderli. I pedali in
carbonio arrivavano dagli Stati Uniti a Verona. E appena sdoganati li
portavamo in sede.
Spesso andavamo dai produttori di bici, nelle sedi
delle squadre o nelle loro officine. Mercatone Uno, Saeco, Bianchi, De
Rosa, Cantine Caldiroli, Willer. Alla Mercatone Uno c’era Marco Pantani.
Anche se, alla sua bici, dovevano cambiare una rondella. Dovevamo
andare a Imola a prenderla e poi riportargliela. Un giorno, con mio
nipote Antonio, che ancora arrivava giusto ai pedali. Ci fermammo
all'Autogrill e ci facemmo i giri sulla sua bici. Il sellino, con il
pirata ricamato, era top. Anche se a me Pantani non è mai piaciuto. Ma
spesso lavoravamo per lui.
Con l'altro nipote Francesco siamo stati un
giorno intero a Vicenza quando ci fu la partenza di una cronometro.
Molte altre volte prendevamo delle bici per portarle alle fiere in
Italia e all’estero. Una volta portammo le bici di Ulrich e di
Vainšteins, campione del mondo in carica, alla fiera di Colonia. Un
blocco di bici Saeco, tra cui quella di Cipollini, in Campagnolo.
Ormai eravamo
conosciuti dai meccanici delle squadre.
In quegli anni c’erano molti
ciclisti forti. Anche italiani.
Adesso guardi il Giro solo per i
paesaggi mozzafiato. Che vedi grazie all’elicottero.
Non c’è nessun big e
nessuna lotta avvincente Tra i corridori. Quest’anno l’unico big poteva
essere Pogacar.
Ma il Giro, gira e rigira, non ha mai avuto il fascino del Tour.
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